Numero 64 - Anno XVIII - N°2

Il taichi: il parere di chi lo pratica

Spesso capita di leggere, su riviste specializzate di arti marziali, articoli che riguardano il Tai Chi Chuan scritti dagli insegnanti oppure con interviste a grandi maestri. Senza nulla togliere a ciò che si legge in questi articoli mi sono domandato quali potessero essere le considerazioni dei praticanti in seguito alla loro esperienza. Così ho chiesto ai miei allievi di scrivere cosa fosse per loro il Tai Chi. Quello che ho letto mi ha in un certo senso colpito perché mi sono reso conto che non è affatto vero che ciò che può pensare uno che pratica da poco tempo sia necessariamente “lontano dal Tai Chi”: non appena una persona inizia a praticarlo comincia già a “viverlo” e ciò che percepisce in quel momento rappresenta la sua verità.


Dice Loretta (due mesi di pratica):
“Mi piace cercare di mettermi in contatto col mio corpo, imparare ad ascoltarlo a livello fisico, staccando il pensiero dal vissuto di tutti i giorni e provo una bellissima sensazione quando, “secondo me”, riesco a fare un esercizio abbastanza bene. Mi sembra di aver capito cosa significhi “rilassare le anche”, ma a volte non so se lo sto facendo bene. Dopo circa due mesi di pratica ho la sensazione che le mie gambe si stiano rinforzando. Sto cercando di superare la difficoltà di “non chiudere le ginocchia”. Ho iniziato ad apprezzare la sensazione di aderenza dell’intera pianta dei piedi al pavimento: indosso le scarpe da Tai Chi con molto piacere.”

È indispensabile che chi inizia la pratica del Tai Chi capisca che la prima cosa da imparare è l’“ascolto di sé stessi”. Questo è importante affinché si instauri un dialogo tra la mente ed il corpo; l’ascolto genera automaticamente la capacità di sentire se un esercizio od un movimento è fatto meglio in un modo rispetto ad un altro, ed il corpo comunica una sensazione di piacevolezza e comodità quando si muove nel modo giusto.


Massimo (quattro mesi di pratica) commenta:
“Nel fare Tai Chi mi sono accorto, soprattutto negli esercizi preparatori di assestamento della struttura, che il corpo raggiungendo il rilassamento, si pone in un equilibrio che raramente avevo provato in precedenza. Questo equilibrio è semplice e complesso allo stesso tempo. Nel senso che lo sento come naturale, ma tale naturalezza non è affatto semplice da ottenere, richiede tempo e concentrazione. La concentrazione non è semplicemente la mente concentrata su un oggetto esterno, bensì un livello profondo di ascolto del corpo, in cui la mente sembra quasi fondersi con i sensi. È a questo punto che ogni tensione si scioglie senza sforzo. È come se tutto il corpo sprofondasse nel suolo mettendo radici. Si sente veramente una sorta di spinta che parte dal basso per poi ritornarvi stabilendo così un circolo benefico. Non so se ciò sia una vera e propria forza o energia che scaturisce dalla terra o da dentro noi stessi, so solamente che mi sento bene nel corpo e nella mente…”

Anche Massimo testimonia che all’inizio della pratica è importante fare attenzione alla ricerca di alcune cose particolari come, ad esempio, la realizzazione e la comprensione del concetto di “rilassamento”. La descrizione che dà delle proprie sensazioni indica che c’è la chiara volontà di realizzare un ascolto profondo di sé che possa portare ad una connessione intima tra la mente, il corpo fisico ed il corpo energetico.


Scrive Danila (quattro mesi di pratica):

“…Ho iniziato con curiosità ma nello stesso tempo con diffidenza, perché tra i vari approcci al Tai Chi volevo capire quale avrebbe fatto più presa su di me. Contemporaneamente temevo di non essere all’altezza, intendo dire fisicamente, anche se sentivo dire da molti che il Tai Chi è per tutti e per tutte le età. La pazienza del Maestro è encomiabile, ma essere capace di mettere in pratica quello che mi chiede è una sfida totale. Ma è quello che in un certo senso cerco, sentire il mio corpo che è mosso da una energia che lo percorre, concentrarmi sul movimento, cercare di correggermi, ricordare la sequenza è un continuo mettermi in gioco. Rimango ancora lontana, forse per la mia forma mentis, dall’aspetto di arte marziale, non riesco mai ad individuare nei miei movimenti una reazione o una difesa verso l’avversario, ma sono molto affascinata al contrario dall’eleganza e dalla leggerezza delle evoluzioni spiraliformi. Al momento la mia più grande ambizione è quella di riuscire a raggiungere questo obiettivo di fluidità e leggerezza utilizzando tutte le mie energie mentali nella percezione delle azioni del mio corpo.”


Dice Marco (quattro mesi di pratica):
“…Questa disciplina mi permette di rallentare la vita in un mondo fatto di stress, di gente che va di corsa, questa è l’unica disciplina che mi fa stare “fermo”, a pensare solo ed esclusivamente al mio corpo. Sono sempre rimasto affascinato dalle arti marziali cinesi, hanno un qualcosa di filosofico, armonioso, come fossero parte della natura. Comunque non capisco perché talvolta queste discipline siano così bistrattate. Quando dico alle persone che faccio Tai Chi mi guardano come se fossi un alieno, non vedo cosa ci sia di male. Forse perché viviamo in un paese dove come sport esiste solo il calcio, che tristezza!...”

La sfida totale, il continuo mettersi in gioco, l’impiego delle energie per mantenere la concentrazioneattenzione e per ricordare le sequenze di cui parla Danila, indicano che il Tai Chi vuole “Kung Fu”: richiede dedizione, impegno e lavoro sinceri per coltivare abilità fisiche e mentali che difficilmente possediamo già.


Penso che il Tai Chi sia un’arte marziale che debba essere affrontata con molta onestà perché possa portare ad una consapevolezza più profonda di sé. In realtà a Marco sono stati sufficienti pochi mesi di pratica per capire che il Tai Chi rappresenta uno strumento efficace per poter accorgersi delle “illusioni” che continuamente viviamo. Nel Tai Chi Chuan non si può fingere di sapere o di essere, si sa qualcosa perché si è quella cosa, perché la si sente nel cuore. Per cui è normale che si possa essere visti come alieni, perché quello che si sente nel cuore non sempre viene visto da altri con lo stesso significato che gli diamo.


E poi Carla (un anno di pratica):

“…È difficile descrivere cosa mi piace del Tai Chi, difficile come rispondere a chi ti chiede: “perché ami quella persona, che cos’ha che ti attira tanto?”. Non lo sai, perché l’amore come la passione sono dettate da una miscela di sensazioni e non da particolari. Posso provare a spiegare che del Tai Chi la cosa che più mi piace è la sensazione di consapevolezza del mio corpo e della mia mente, che spesso non viaggiano in sintonia, quasi fossero nemici. La consapevolezza dei miei limiti, la consapevolezza che se voglio e mi impegno posso migliorare. La consapevolezza di ciò che non mi piace fare, come la ripetitività degli esercizi, perché per natura sono inquieta e vorrei sempre correre avanti per scoprire qualcosa di nuovo. La consapevolezza che però se non imparo prima a camminare non potrò mai correre. Insomma non so dire di preciso perché mi piace. È come in amore, mi piace e questo basta.”


Afferma Giuseppina (un anno di pratica):

“…Inizialmente per me era solo la “ginnastica dolce” che esprimeva armonia, bellezza e fluidità nei movimenti. Una ginnastica adatta a tutti e senza esasperazioni muscolari, proveniente da una non ben definita filosofia orientale. Adesso non so dare una definizione ben precisa del Tai Chi perché non lo considero una cosa statica, bensì un percorso che, passo dopo passo, mi avvicina alla parte più naturale ed autentica di me stessa. Anche se impercettibili e discontinue, sento che il Tai Chi è un susseguirsi di scoperte di sensazioni e consapevolezza di ciò che fa il mio corpo.”


E Federico (un anno di pratica) alla domanda “cosa sia il Tai Chi” risponde:

“…posso solamente dare una risposta valida “oggi”, che è sicuramente diversa da quella che avrei dato un anno fa e molto probabilmente diversa da quella che potrò dare tra un anno. Per me il Tai Chi non è una cosa sola, ma un insieme di differenti aspetti: innanzi tutto un arte marziale strettamente connessa con una interessante filosofia; tuttavia la sua pratica nel tempo ha iniziato a darmi l’impressione di imparare a conoscere e controllare sia il corpo ma anche la mente con una maggiore consapevolezza. La pratica con il Maestro ed il confronto con Lui e con gli altri Allievi mi danno modo di prendere in considerazione modi diversi dal mio di eseguire anche un solo movimento apparentemente semplice e ciò, unito ad uno studio a casa, mi da la possibilità di studiare diversi modi di sentire quel movimento ed i diversi significati che esso può avere. Da poco più di un anno di pratica la sensazione è di essere sulla classica punta dell’iceberg, con una enormità di cose e aspetti ancora da scoprire. Non so quale sia nè dove sia il traguardo: è bello proseguire nello studio e vedere crescere, con la pratica, una sempre maggiore complessità del significato che si può dare al Tai Chi; si ha la chiara sensazione che più lo si studia e più esso si articola e si sviluppa, mostrandoti quanto hai ancora da studiare e soprattutto quanto diversi possano essere i modi di viverlo ed i significati che può avere.”


Sia Giuseppina che Federico, dopo circa un anno di pratica, considerano il Tai Chi come qualcosa che non ha una forma definita ma si trasforma continuamente nel tempo…in realtà non perché cambi il Tai Chi, ma perché cambia la propria personale percezione di esso. Man mano che si prosegue nello studio e nella pratica ci si rende conto che la propria capacità di ascoltare e di vedere le cose migliora, per cui ciò che si pensa in un certo momento del proprio cammino sarà sicuramente diverso in un altro.


Le considerazioni di Antonio (quattro anni di pratica): “La pratica della arti marziali inizia da un bisogno di educazione fisica, ed il Tai Chi appare adeguato a soddisfare questo bisogno, a differenza di qualsiasi sport, in seguito ad alcune riflessioni:

- l’arte marziale non si basa sull’ipertrofizzazione di una o poche componenti fisiche e non è mediata da strumenti ed apparati; al contrario, il praticante, ridotto alla propria essenzialità, è obbligato a studiare se stesso per cercare uno sviluppo armonico.
- uno sport è reso “reale” dall’interiorizzazione delle regole, solo nel momento circoscritto della competizione e soggetto al giudizio di un arbitro. Al contrario, la lotta sfugge a questa limitazione; la sua imprevedibilità non permette specializzazioni di ruolo ed obbliga alla creatività.
- il piacere di imparare ed evolvere non è subordinato alla prestazione: un arte ha una componente estetica
- così come il sé non può prescindere dal corpo che lo informa, allo stesso modo l’arte marziale non può limitarsi all’allenamento fisico. Quello che si persegue al fine della lotta (equilibrio, azione rilassata, determinazione-intenzione marziale, sensibilità…) è ciò che serve anche in una relazione etica, in un’attività scientifica o in una contrattazione commerciale. Quindi la lotta diventa un modello di studio (non necessariamente l’unico o il migliore) dell’esserci, del sé nel mondo.”